czwartek, 21 września 2017

VERSO L’ORIZZONTE - SCENDENDO VERSO LA VALLE



Andrzej Juliusz Sarwa

VERSO L’ORIZZONTE (5)

racconti straordinari

tradotte da Marco Valenti


SCENDENDO VERSO LA VALLE

In memoria di mia moglie Elżbieta

 Anima mia, perché ti abbatti, e perché ti commovi in me?
Sal. XLII, 6

Una sera grigia e tetra di novembre del 2012, l’aria satura di una sospensione di goccioline microscopiche né di pioggia né di nebbia, il giorno che cedeva rapidamente il passo a una notte nera come la pece.

Ero seduto sulla sedia davanti al computer, tremendamente stanco, senza pensare a nulla fissavo la finestra, la tenda scostata a metà, sui vetri il riflesso del bagliore della lampada situata al centro della scrivania, proprio sopra alla tastiera. Avevo già spento il lampadario, la stanza era avvolta nella penombra.

Ne avevo abbastanza. Avevo passato l’intera giornata al computer. Diciotto ore. Mi sentivo come il guscio di un mitilo dal quale era stato succhiato via tutto il contenuto. Sorrisi tra me e me, notando l’assurdità di quel paragone. Come si possono attribuire dei sentimenti a un guscio? Tuttavia, mi sentivo proprio vuoto dentro, senza forze. La spina dorsale mi doleva sempre di più. Tutta. A partire dal collo, attraverso le spalle, fino ai fianchi. Un dolore fastidioso, diffuso, a tratti penetrante, mi tormentava. E inoltre, sempre più spesso, quel dolore nel petto… Un dolore che mi paralizzava, mi toglieva il respiro… Non so se provenisse dal cuore, dalla spina dorsale, o da chissà dove. I medici si dichiaravano impotenti. In realtà, non so nemmeno se ascoltassero ciò che avevo da dir loro.

Sospirai pesantemente e guardai il barattolo di ketoprofene, ormai quasi vuoto. Ne facevo uso molto raramente, questa volta, però, ammisi che senza quel forte antidolorifico la notte non sarei stato in grado di chiudere occhio. Estrassi il tappo di plastica e versai sulla mano le ultime tre pillole blu. Ne misi una in bocca e la mandai giù senza acqua, poi rimisi le altre due nel vasetto.

Ingobbito, mi trascinai verso la cucina, aprii il frigorifero e cercai con lo sguardo la bottiglia d’acqua gassata che vi avevo riposto affinché si rinfrescasse per bene. Era lì. Molto fredda. Proprio come mi piaceva, anche se raramente la bevevo così fredda. Riempii un bicchiere fino all’orlo e bevvi tutto d’un fiato. Il freddo mi penetrò nei denti, nella gola, nell’esofago.

Nella stanzetta accanto mia moglie era ancora seduta al computer. Stava facendo dei conti.

– Ela – dissi. – Lascia stare, dai. Guarda com’è tardi. Non affaticarti troppo. Io ne ho abbastanza. Vado a letto, riposati anche tu, finalmente. Anche tu lavori come una matta fino all’alba.

– Va bene. Finisco ancora quest’ultimo conto – rispose.

– Non puoi farlo domani?

– No, non posso, altrimenti perdo il filo. Finisco davvero tra un attimo. Vai a dormire.

– Buonanotte, allora.

Mi feci rapidamente la doccia, poi, sdraiato tra le lenzuola, fissai  l’oscurità per qualche momento. Da oltre la parete continuavo a sentire il rumore delle dita che battevano sulla tastiera. Finalmente chiusi gli occhi. Riuscii ancora a sentire il gatto che saltava sul letto e si accoccolava alle mie gambe…

* * *

Attraverso i vari strati del sonno giunse alla mia coscienza una voce maschile, aveva un timbro strano e ripeteva in continuazione quest’unica frase:

– Lei morirà presto, resterai da solo e allora ti farò vedere io!

Mi sedetti bruscamente sul letto, convinto che si fosse trattato di un incubo. Ma no, era troppo reale per essere un sogno qualsiasi. Mi stropicciai gli occhi, guardandomi intorno spaventato. Da oltre la finestra giungeva la debole luce giallognola del lampione stradale e illuminava l’intera stanza. Nella stanza non vidi alcun estraneo. Tuttavia, ero così scosso per via di ciò che avevo sentito, che non mi coricai più e mi sedetti nel tentativo di tranquillizzarmi.

“Lei morirà presto, resterai da solo e allora ti farò vedere io!”, quella frase continuava a rimbombarmi nelle orecchie. Con l’accento su “morirà” e “resterai da solo”… Respirai profondamente per qualche momento per calmarmi. E alla fine mi convinsi di aver sentito per davvero quelle parole che portavano con sé un terribile presagio e una minaccia. Provai un forte brivido… Compresi che doveva trattarsi della voce di uno spirito malvagio che mi annunciava la morte di mia moglie. Sì, senza alcun dubbio il diavolo stava cercando di minacciarmi. Alla fine, però, non presi sul serio le sue parole.

– Bugiardo – pensai.

Accesi la lampada da notte, consapevole del fatto che, ormai, non mi sarei più riaddormentato. Accesi il computer e, quando lo schermo si illuminò di blu, controllai l’ora e la data sulla barra nella parte inferiore del monitor: 3 novembre, due minuti dopo le tre. Quella notte l’alba era ancora lontana. Mi concentrai su ciò che avevo sentito… E se, invece, fosse tutto vero?… Ela non godeva di ottima salute. Problemi alla tiroide, ipertensione, problemi agli occhi. Qualche tempo fa era stata colpita da un ictus, dal quale, grazie a Dio, era uscita illesa… Adesso, però, sembrava che stesse bene e nulla lasciava presagire che la situazione fosse così grave o che soffrisse di una malattia letale… Lavorava… molto… non si risparmiava affatto… così come aveva fatto per tutta la vita…

– Bugiardo. Vuoi solo spaventarmi – pensai di nuovo.

Mi trascinai in bagno, mi feci una doccia fredda che mi rianimò, quasi come se avesse lavato via l’ultimo residuo di paura; tuttavia, continuavo a sentirne il retrogusto amaro da qualche parte nella gola e nel petto, sotto al cuore…

Misi il bollitore sul fuoco. Quando fischiò, preparai il caffè e mi recai nella mia stanza. Bevvi rapidamente due sorsi bollenti, scottandomi le labbra. Mi sistemai una volta per tutte davanti al computer. Controllai la posta. Risposi alle e-mail. La solita routine. Dopo qualche minuto mi misi a lavoro.

Volevo finire di lavorare su quel libro il prima possibile. L’argomento era pesante. Oscuro, soffocante: la possessione diabolica… Comprendevo perfettamente il motivo per cui il diavolo desiderasse intimidirmi in quel modo… Con quel libro avrei potuto sferrargli un potente colpo, avrei potuto sottrargli qualche anima su cui aveva già deciso di posare i propri artigli e che aveva inserito nelle proprie macchinazioni, e ciò rappresentava un affronto imperdonabile. Io, ormai, appartenevo già a lui, ma forse per causa mia, o grazie a me, il numero delle sue vittime sarebbe stato minore?

Io e mia moglie ci eravamo ormai abituati a tutti quei cigolii, alle ombre che scivolavano nella stanza appena visibili con la coda dell’occhio, a quegli strani schianti, alle scie di fetore orripilante e agli improvvisi spifferi di gelo. Ci eravamo abituati anche ai tentativi di spaventare i nostri animali domestici, soprattutto il gatto Włóczek [“il Vagabondo”]. Dal momento che tutto ciò non sortiva su di noi alcun effetto, il Maligno aveva deciso di tirar fuori l’artiglieria pesante…

Dopo aver pubblicato l’Intrappolato, probabilmente, da me non mi sarei deciso a scriverne il secondo volume. Marta, però, la responsabile della pubblicazione, autoritaria e sorda di fronte a qualsiasi forma di resistenza, era rimasta estasiata davanti al primo libro e mi aveva praticamente costretto a scriverne il seguito. E nell’aria c’era anche la terza parte. O, almeno, questo era quanto era venuto fuori dal mio “lavoro” fino a quel momento.

In realtà, avevo già terminato la seconda parte verso la fine di ottobre, adesso stavo aggiungendo soltanto delle lievi modifiche e stavo riformulando alcuni passi. Si trattava più che altro di questioni estetiche. Ma portavano via un mucchio di tempo.

Sospirai di nuovo profondamente e iniziai il lavoro mattutino dalla lettura di ciò che avevo modificato la sera prima, cercando ancora eventuali errori e apportando le modifiche necessarie. Quel lavoro non mi piaceva affatto. Era un lavoro peggiore e più noioso dell’assemblaggio di penne a domicilio…

Finalmente riuscii definitivamente a rendere il testo scorrevole, presi a rileggere il tutto ancora una volta per riprendere il filo e, una volta che ebbi finito, mi piegai all’indietro per sgranchirmi le ossa. Poi mi alzai dalla sedi e feci un profondo inchino, fino a sentire una serie di scricchiolii nelle giunture della spina dorsale che si scioglievano.

Dalla cucina iniziarono ad arrivare i suoni del viavai. Ela si stava preparando una colazione frugale. Io non avevo ancora voglia di mangiare. Tuttavia, entrai in cucina e, passando accanto a mia moglie, sfiorai la sua guancia con le labbra.

– Ciao!

Mi misi a preparare una seconda tazza di caffè.

– Ciao! Non hai dormito di nuovo? – chiese Ela.

– Ho dormito. Fino alle tre. Ho avuto un incubo e mi sono risvegliato.

– Cosa hai sognato?

– Un incubo e basta. Non ricordo più – mentii e, allo stesso tempo, sbirciai verso il viso di Ela, quasi come alla ricerca di qualche particolare sintomo di malattia. Ma aveva un buon aspetto. Particolarmente buono. E, inoltre, era di ottimo umore. Cosa che capitava di rado.

– Non bere così tanto caffè! Non esagerare. Vuoi ammalarti ancora di più?

– Ma dai. Ho già fatto in tempo ad affaticarmi e non mi sento molto cosciente. Ma che ore sono?

– Le sei.

– Ecco, vedi? Ho già tre ore di lavoro alle mie spalle.

Lei non disse più nulla, fece soltanto spallucce.

* * *

Domenica 11 novembre era bel tempo, niente pioggia, niente nebbia, niente vento. Era una giornata soleggiata, ma iniziava già a fare freddo.

– E se oggi andassimo a san Giacomo per le 9:15? – chiese Elżbieta.

– Va bene. Ma potremmo andare anche da qualche parte più vicino…

– Andiamo! Passiamo per Podwale, prendiamo la scorciatoia.

Sapevo che amava passeggiare di lì, cosa che io, d’altro canto, detestavo.

Indossò un soprabito nero, un paio di stivali, dei guanti di pelle, ma in testa non aveva nulla.

– Mi tormenti perché non mi prendo cura di me stesso, e tu, invece, esci con la testa scoperta quanto fa freddo. Vuoi ammalarti per forza?

– Non esagerare. Non mi succederà nulla. Al sole fa caldo.

– Infatti… al sole – borbottai.

Dal momento che eravamo usciti molto in anticipo, ci incamminammo verso la chiesa senza fretta. Dopo aver superato la passeggiata di Podwale Dolne, ci addentrammo in una gola non troppo profonda che si inerpicava verso l’alto piuttosto ripida e che sbucava direttamente di fronte al portone dell’antico tempio dei domenicani.

Nell’aria autunnale illuminata dalla sfera del sole, che pendeva bassa nel cielo, si sentiva l’odore fresco e caratteristico delle foglie d’acero appena cadute. Ce n’erano ancora molte appese sugli alberi, brillanti di mille tonalità di rosso, bruno e oro. Ela faceva delle fotografie. Le piaceva farlo, anche se lei stessa non amava farsi fotografare.

La gola, tuttavia, era così incantevole che Ela non si rifiutò, pur sempre controvoglia, di farsi riprendere in quello scenario da favola. E dunque eccola nella foto, tranquilla, sebbene il suo volto sembri stanco e gli occhi siano socchiusi. E sulle labbra un’espressione che non somiglia né a un sorriso, né a una mezza smorfia… È in piedi su un tappeto multicolore di foglie cadute, sullo sfondo un tappeto identico, solo da qualche parte in lontananza si delinea il contorno irregolare e sfocato delle case di via Zamkowa…

* * *

Quella era stata una giornata tranquilla… Una lunga passeggiata tranquilla dopo la messa… E un pomeriggio tranquillo. E un sentimento di gioia che ci pervadeva entrambi, e uno straordinario senso di sicurezza, come si sperimenta assai di rado nella vita… E una sera silenziosa e una notte tranquilla, nonostante al tramonto il tempo si fosse spezzato e le gocce di pioggia risuonassero delicatamente sui vetri nell’oscurità .

* * *

L’inverno scorreva lentamente. Il Natale a casa nostra fu un po’ diverso dal solito, poiché per la prima volta da oltre trent’anni avevamo addobbato un grande albero di Natale vivo, ottenuto tagliando un piccolo cipresso nel giardino dietro casa. A dire il vero, non aveva lo stesso profumo di un abete o di un peccio, ma il nostro gatto ne fu entusiasta lo stesso…

* * *

Il 27 dicembre vennero conclusi definitivamente i lavori sul libro, sia da parte mia che da parte dell’editore; con un certo timore, lo ammetto, chiesi a mia moglie di leggerne la versione definitiva… Come al solito, del resto… Era sempre stata la mia prima lettrice…

* * *

Esattamente il giorno di Capodanno del 2013 Ela ripose il testo, stampato al computer, di Sussurri e ombre. Non disse nulla per qualche tempo. Alla fine agitò la testa, come in un gesto di disapprovazione.

– Allora? Non ti piace?

– Sì, il libro è scritto bene… solo che…

– Cosa?…

– È così pieno di negatività… che a tratti fa male…

– Ma se c’è un lieto fine… – notai timidamente.

– A prima vista sì… ma, in fin dei conti, non è così… l’ultima scena… non c’è nulla che abbia un lieto fine, se ci sarà un seguito ricomincerà tutto daccapo… è così che abbiamo organizzato il mondo… siamo fatti così…

– Noi?

– Noi. Gli esseri umani.

– Forse non ci sarà nemmeno un seguito. Sono esausto…Non credo di riuscire a scrivere un altro libro così…

– È quello che pensi ora. Ma c’è qualcosa che non hai detto fino in fondo in questo libro. Manca qualcosa. Credo che, nonostante tutto, dovresti scriverlo il seguito. Questo libro, alla fine, lascia inappagati…

Ela sospese la voce.

– Comunque – sorrise. – Né tu sarai in grado di lasciare incompiuto ciò che hai iniziato, né Marta stessa te lo permetterebbe.

Si riferiva al mio editore. O piuttosto, alla mia editrice? Non so quale sia la forma corretta, oggigiorno.

* * *

L’inverno finiva lentamente. Arrivò marzo. Le giornate si fecero sempre più lunghe, nonostante la neve continuasse a cadere e il disgelo tardasse ad arrivare…

Il romanzo venne stampato. La casa editrice promise che sarebbe stato pubblicato piuttosto presto. Forse già nella prima settimana di aprile.

* * *

Da una dozzina di giorni, ormai, Ela non si sentiva molto bene. Non voleva ammettere cosa avesse davvero, ma doveva veramente sentirsi malissimo, dal momento che decise di doversi fare un ecografia dell’addome. Fu lei stessa a “prescriversela”. E poi la fece. Privatamente, come si faceva nella nostra cara, “terza repubblica”.

Il 12 marzo finì in ospedale. Si sarebbe dovuto trattare di un’operazione piuttosto semplice. Poi i campioni per l’esame istopatologico standard. L’attesa… l’ansia e la speranza… a turno… L’attesa… l’attesa…

* * *


A Pasqua nevicò in abbondanza. Per arrivare in chiesa durante il Triduo pasquale bisognava superare profondi cumuli di neve… Ela era appena uscita dall’ospedale, aveva da poco subito un’operazione, era in pessima forma e si sentiva debole, ma non saltò comunque nemmeno una funzione.

Il Venerdì Santo andammo al santo Spirito.

Quando l’officiante intonò “Ecco il legno della croce, al quale fu appeso il Cristo, salvatore del mondo…”, in chiesa si spensero tutte le luci. Soltanto le fiammelle delle candele scintillavano appena, illuminando lo spazio più vicino. I fedeli, disorientati, non sapevano cosa stesse succedendo, si guardavano intorno e sussurravano tra di loro, chiaramente scossi. L’officiante continuò a celebrare la funzione.

Una semplice interruzione della corrente elettrica, ma nel cuore mi rimase lo stesso un granello di paura, una certa insicurezza, un certo timore…

Un segno?… Ma no! Non si può considerare tutto un segno… Non si può pensare subito al soprannaturale!… I segni non esistono, esistono solo le coincidenze! Secondo gli scienziati. Secondo questi sciamani dei nostri tempi.

* * *

Il 2 aprile Ela si recò al laboratorio per ritirare i risultati delle analisi del frammento di tessuto che le avevano prelevato durante l’operazione. Non si sentiva male. Piano piano stava recuperando le forze. Io ero rimasto a casa. Come al solito ero seduto al computer.

Squillò il telefono:

– Venga quando vuole. Il libro è già stampato. La aspetto! – nella cornetta si sentì la voce di Marta.

– Finalmente!

– La smetta di lamentarsi e venga! Sija żmija! – e riagganciò.

* * *

Mi arrampicai con difficoltà al primo piano. Seguii lentamente un lungo corridoio che portava alla stanza dove si trovava la redazione. Stavo per afferrare la maniglia, quando squillò il cellulare. Mi fermai davanti alla porta. Feci due o tre passi indietro, estrassi con difficoltà il telefono dalla tasca e lo accostai all’orecchio. Era Ela.

– Ho ritirato… le analisi… – la sua voce sembrava insicura, si spezzava, alla fine s’interruppe.

Rimasi immobile, aspettando che continuasse. In una manciata di secondi la mia fronte si ricoprì di sudore, il cuore mi batteva all’impazzata nel petto, come se stesse per esplodere.

– …e non va affatto bene – concluse Ela. – Adesso non ho voglia di parlare. Ne discuteremo a casa.

Non sapevo cosa fare. Mi sarei voltato volentieri per correre via al più presto fuori dall’edificio della casa editrice. Tuttavia, in quel momento non sarei stato capace di stare da solo.

Premetti la maniglia. Mi sedetti pesantemente su di una sedia accanto a un tavolino di vetro. Marta mi porse il libro fresco di stampa. Lo presi senza pensarci, lo rivoltai un paio di volte tra le mani. Lo aprii, lo richiusi e lo misi via.
– Allora? Non va bene? Adesso cosa c’è che non va? 12.5x19.5, carta a volume elevato, copertina soft touch, verniciatura spot, il cognome messo in evidenza… allora, cosa c’è che non va? – chiese Marta.

I miei occhi si riempirono di lacrime.

– Cos’è successo? Forza, mi dica!

– Mi ha chiamato mia moglie un momento fa… Alla fine si tratta di cancro… – non riuscii a trattenermi oltre e scoppiai a piangere…

* * *

Prima la ricerca di una clinica. Kielce. Rzeszów. Poi le analisi. A Kielce no. A Rzeszów subito, su due piedi, ma solo per miracolo. Poi altre analisi. Le raccomandazioni. L’operazione. Il 10 maggio. Tarnobrzeg. Al più presto. Senza bisogno di attendere. Un intervento di rimozione totale. Perché non a Sandomierz in aprile? Forse così il tumore non si sarebbe infiltrato nei vasi sanguigni?!!! Come risposta, spalle scrollate. Perché, per la miseria, non in aprileee?!!!

* * *


9 maggio. Ho iniziato a lavorare al terzo volume della trilogia. Sarà intitolato I semi della salvezza. Ho un pessimo presentimento. Sto scrivendo questo libro per Ela. L’ho dedicato a lei… Non sarà troppo tardi?… Sono riuscito a riempire appena una manciata di pagine con qualche riga nera di testo… Quanto tempo ho?… Quanto tempo abbiamo?… “Non pensarci, scrivi” – ripeto a me stesso.

* * *

Di nuovo Rzeszów. Maggio. Brachiterapia. Tre frazioni. Un lento recupero delle forze. Un sospiro di sollievo. Un’ondata di speranza. Sempre più speranza… Sempre di più. “Andrà tutto bene”. Tutti continuano a ripetermelo. “Signor Andrzej, andrà tutto bene. Davvero”. Alcuni mi accarezzano addirittura il braccio. Andrà tutto bene…

* * *

Abbiamo ricominciato a uscire insieme in città. Non più ogni giorno, come facevamo ancora poco tempo fa, ma una, talvolta anche due volte a settimana. Ela sembrava quasi fiorire. Chi l’avrebbe mai detto che era gravemente malata?

* * *

L’inizio di giugno è stato caldo. Forse sarà anche un mese tranquillo?…

* * *

Martedì 4 giugno ho visto per l’ultima volta il mio animale, o meglio, il mio amico, il gatto Włóczek. Ansia. Sempre maggiore.

– Non tornerà più. Era troppo fiducioso. Si avvicinava a chiunque…

– Devi vedere tutto in maniera negativa – mi rimproverò Ela.

Il dieci lo ritrovammo in un bidone della spazzatura nei dintorni di un grande albergo in costruzione. Era già in decomposizione. Aveva tutti i denti spaccati. Qualcuno si era divertito. “I gatti son falsi, no? Uccidiamolo!”. E lo avevano ucciso… Come se non bastasse, lo avevano gettato in mezzo alla spazzatura. Lo avevano profanato…

Insieme a Ela lo portammo nel giardino dietro casa. Lo seppellimmo nel punto in cui, quando era ancora un gattino, amava nascondersi tra l’erba e i fiori… così, per gioco… Qui nessuno gli farà più del male… Si farà verde con l’erba… fiorirà con i giacinti… profumerà con i gigli… L’ape laboriosa lo porterà nell’alveare insieme al dolce nettare…

* * *

Lavoriamo entrambi a pieno regime. Con tutte le nostre forze. Nessuno di noi due risparmia le energie. A che scopo? Nessuno di noi due dice nulla, ma entrambi pensiamo sicuramente la stessa cosa. Non si sa quanto tempo insieme ci verrà ancora concesso da Dio… Bisogna portare a termine alcune questioni. Ma andrà tutto bene… andrà tutto bene… “Oooh, signor Andrzej! Andrà tuuutto bene!”

* * *

Il 31 luglio ho concluso la revisione de I semi della salvezza. La valutazione teologica obiettiva (è così che oggigiorno viene definita la censura ecclesiastica) anche è pronta, non è sorto alcun problema. Ora il resto dipende da Marta. Quando troverà il tempo di completare il lavoro sul libro? Sostanzialmente il libro è pronto per essere stampato…

* * *

Agosto sembrava promettente all’inizio, ma solo all’inizio. Sono comparsi nuovi disturbi. Un raffreddore, forse? Un dolore al fianco. Forse ha preso freddo. Nulla di grave. O almeno così sembra. Il 16 agosto Ela decise di nuovo da sola di sottoporsi a un’ecografia. Un accumulo di liquido nei polmoni. Non è niente di grave, vero? Terapia antibiotica. Non sarebbe forse meglio fare una lastra del torace? Il 19 agosto la lastra: numerose neoplasie in entrambi i polmoni. Il 28 agosto la tomografia. Non c’è più alcun dubbio… metastasi in entrambi i polmoni. I tumori sono piuttosto grandi…

* * *

– Ascolta, dimmi una cosa…

Trattenendo a stento il pianto, leggo al mio amico l’opinione medica.

– Qual è la prognosi?

Silenzio.

Dopo un attimo sento la sua voce nella cornetta:

– Non sono un esperto… Potrebbe essere rimasto soltanto qualche mese si tratta ancora solo di qualche mese…

Restiamo in silenzio.

– Ma non prendere troppo sul serio quello che ti ho detto. La situazione può cambiare ancora completamente – aggiunge rapidamente.

Tenta di rallegrarmi. Che tempi… la verità messa in secondo piano… pur di non far male a qualcuno… Ma fa male lo stesso… Sempre… Allora perché fingere?… Perché è politically correct…

* * *

Il 6 settembre 2013 ebbe inizio la chemioterapia palliativa. Sei cicli. Poi la terapia ormonale. Nessun miglioramento. C’è stato uno sviluppo, invece, il tumore ha attaccato le ossa, la sacca pleurica. Dolore… dolore… dolore… incessante, terribile, pressoché disumanizzante… Radioterapia. E di nuovo dolore… Ancor maggiore! Sarebbe dovuto diminuire, invece è aumentato.

E nemmeno una singola parola di protesta. Nemmeno una traccia di ribellione o di opposizione… A volte soltanto delle lacrime a riempire gli occhi per un attimo, ma senza scorrere giù lungo le guance.

“Ela – sussurro tra me e me – perché mi metti alla prova in questo modo? Sarò in grado di sopportare il dolore come fai tu, quando un giorno la morte verrà a reclamare anche me?”

* * *

– Signora Marta, non aspettiamo che arrivi la revisione definitiva! Mandiamo il libro in stampa adesso, la prego.

Un piccolo tranello. Hanno stampato un esemplare apposta per Ela. Così come avevamo pianificato fin dall’inizio. 12.5x19.5, carta a volume elevato, copertina soft touch, mancava solo la verniciatura spot… ma non si nota nemmeno… Il resto della tiratura verrà stampato in seguito…

* * *

Ela è di buon umore oggi. Sente meno dolore, i crampi alle gambe sono più lievi e meno dolorosi, quasi niente vomito…

– È per te – le porsi il libro.

– I semi della salvezza – lesse il titolo con tono sommesso. – Bella copertina.

Lo aprì. Guardò la dedica la dedica: A Ela, mia moglie e mia amica da quasi quarant’anni, a cui sarò eternamente debitore. L’autore.

Alla fine gliel’ho detto. Mi dispiace soltanto di averlo fatto così tardi…

* * *

L’ultimo Natale insieme… Non prepariamo più l’albero di Natale vivo…

* * *

L’anno 2014 non è altro che dolore sempre e sempre maggiore…

* * *

Il 9 aprile di nuovo la chemioterapia… il trattamento di seconda linea… Una sofferenza ancora maggiore… Ci stiamo perdendo. Sembra che, ormai, sia giunta la fine. Ela si sta ancora riprendendo. Siamo di nuovo a casa l’uno con l’altra. L’ultima Pasqua insieme…

* * *

Il 3 agosto andiamo fuori Sandomierz. Un amico, il signor Andrzej, ci ha convinti ad andare alla fiera della cucina di Gorzyczany. Ce ne stiamo, dunque, seduti nel cortile della caserma dei pompieri, sotto il sole caldo e spietato. Nemmeno un briciolo d’ombra. Mangiamo le prelibatezze locali. Durante il viaggio di ritorno, nostra figlia Asia ci porta a a fare una passeggiata lungo la Vistola.

Ce ne stiamo seduti su una panchina sul lungofiume. I riflessi dorati del sole, ormai basso, brillano sui tetti degli edifici della Città Vecchia. Dietro, alle nostre spalle, il luccichio della Vistola.

Ela, con gli occhi socchiusi, osserva la Chiesa di san Giacomo, il Castello, la Cattedrale. Rimane in silenzio e sorride insicura, come se sapesse già di osservarli per l’ultima volta… La luce del sole è ancora forte. Accecante. Ela indossa un paio di grandi occhiali scuri e continua a sorridere appena… Io sono seduto accanto, con il capo chino. Numerosi pensieri, tra i più vari, si agitano nel mio cranio… Asia ci fa una fotografia…

* * *

Il 4 agosto è stato eseguito il terzo ciclo di chemioterapia. Senza alcun effetto. Solo sofferenza…

* * *

Il 23 agosto è l’ultima volta in cui usciamo insieme quasi come se andassimo a fare una passeggiata. Ce ne andiamo a stare un po’ nel nostro orto, distante trecento metri da casa, che avevamo comprato per le nostre figlie, Asia e Martunia. Ela, quasi esclusivamente con le proprie forze, si arrampica su una ripida salita che porta in cima ad una collina dalla sommità piatta. La sosteniamo solo un po’. Il gruppo di operai che avevamo assunto sta terminando di sistemare il terreno.

Nel mio cuore germoglia la speranza…

Facciamo ritorno a casa…

* * *

31 agosto. Domani è il compleanno di Ela. Vengono a trovarci gli amici della casa editrice Wydawnictwo Diecezjalne: Marta e il direttore Leszek. Inaspettatamente passa anche Tomek, il redattore del “Gość Niedzielny”? Chi altri? Non ricordo… Ela non si alza più dal letto, ma vuole svolgere ancora gli onori di casa. Marta le porge una bellissima orchidea bianca, mi passa per la testa che si tratta di un Dendrobium compactum, una piccola deformazione, risalente al periodo in cui mi occupavo di giardinaggio…

Ela ci guarda con uno sguardo pressoché infantile. E dice:

– Ora c’è sempre un uomo a farmi compagnia… Non è né bello, né brutto. Non ne ho paura, lui mi protegge. Ecco, è strano, è qui con me, ma allo stesso tempo è come se fosse ovunque, in tutta la stanza…

Marta risponde, insicura:

– Forse… forse è l’angelo custode?

– Forse… Forse è l’angelo custode… – penso tra me me.

* * *

Non restiamo con le mani in mano. Continuiamo a lavorare oltre le nostre forze. Ela, appena è in grado, si siede al computer. Praticamente fino alla fine di settembre continua a dirigere da sola la propria casa editrice… Non vuole alcun aiuto…

Il 6 ottobre 2014 ordina per l’ultima volta la stampa di nuovi libri.

Poi riordiniamo la sua scrivania. In due. Deve essere tutto in ordine. Ogni cosa al proprio posto, come sempre. Com’è sempre stato in questi quasi quarant’anni di vita insieme.

– Non fate fallire la casa editrice.

– Non fallirà, Ela.

– Elimina tutte le piante nei vasi e i fiori in giardino, da solo non riuscirai a prendertene cura.

– Va bene.

– …

Non so cos’altro avrebbe voluto dirmi.

E io nemmeno so cosa dovrei dirle.

– Sai? Scriverò ancora un libro per te. Solo per te – le dico con voce insicura.

Sorrise appena. Non avrò mica detto qualcosa di stupido o inutile?… Non avrò mica voluto darle una falsa speranza? Non lo so nemmeno io…

– L’importante è che ci sia un lieto fine…

– Cosa? – non capii.

– In quel libro per me.

Sorrisi, incerto, e non risposi nulla, ma nel profondo del mio cuore mi ripromisi che quel libro avrebbe sicuramente avuto un lieto fine. Nonostante sappia già, che Ela non lo leggerà più…

* * *

20 ottobre, un brusco calo dei livelli di potassio. In ospedale con l’ambulanza, verso l’unità di cure palliative. Bisogna reintegrare i livelli di elettroliti.

– Portatemi a casa! – chiede. Poi lo pretende. Alla fine grida.

La riportiamo via il 26, non possiamo più fingere di fronte a noi stessi che possa guarire…

Dolore… Un’enorme, terribile piaga da decubito sulla schiena, si vedono le ossa della spina dorsale. Una ferita sulla mano in seguito a un’ustione da chemioterapia che non vuole rimarginarsi… Dolore… la gola bruciata a causa della chemioterapia… non riesce a deglutire. Non mangia più. Ha quasi smesso di bere. Dolore… Dolore…

Morfina. Sempre più morfina. Sempre di più… Sempre in dormiveglia. Sempre meno cosciente… Dolore… Non lo si può nascondere o mascherare… Morfina…

Ela non beve più. Sono quasi tre giorni, ormai, che non beve quasi nulla. Da mesi le figlie non si allontanano dal letto della madre. Se ne prendono cura, come un tempo aveva fatto lei con loro, quando erano piccoline e inermi… So che ciò la mette a disagio, prova vergogna… Cercano di farla bere. Una goccia alla volta… Non serve a molto. Non abbiamo più alcun contatto.

Asia è più forte. O forse è solo una questione di apparenze?… Marta si preoccupa più raramente di nascondere le lacrime… I miei occhi sono asciutti, ma ho sempre quell’insopportabile e amaro nodo alla gola…

* * *

Venerdì 31 ottobre. Siamo seduti attorno al letto di Ela. Marta, Asia, io, suo fratello, la zia, la cognata. Ela tace. Non è in grado di parlare. A volte tenta di articolare qualche suono, ma non ci riesce.

Sono le 15:40, vedo che muove le labbra, mi chino su di lei. Sento distintamente alcune parole, pronunciate con estrema calma:

– È la fine…

* * *

La notte tra il 1 e il 2 di novembre sogno Ela, si veste con estrema cura e particolare eleganza. Indossa la parrucca. Le chiedo: “Dov’è che vai?” “Ma come dove? In chiesa”. È tranquilla, soddisfatta…

* * *

Domenica 2 novembre. Ela continua a non bere. Bisogna rimediare in qualche modo. Le nostre figlie telefonano ovunque in città. Non è facile trovare un’infermiera il giorno festivo dopo Ognissanti.

Finalmente arriva. Entra in camera. Tenta di infilare l’ago nella vena per attaccare la flebo. Ma i vasi sanguigni si rompono. Uno dopo l’altro. Tutti. Dopo quasi un’ora rinuncia.

– Signora, quanto tempo è rimasto? – le chiedo con tono distante.

– Sa com’è, non si può dire. È ancora possibile che vada tutto bene…

Ormai qui è dell’eternità che si tratta, e non più di dire qualche parola di conforto per non arrecare dispiacere a qualcuno… Che tempi… Ma probabilmente lei non lo capisce, quindi non le faccio più domande del genere. Si vede che vorrebbe fare del proprio meglio nel modo più delicato possibile… ma ormai non si tratta più di correttezza politica… si tratta dell’eternità…

Se n’è andata.

Telefono ad un amico.

– Piotrek… – mi si spezza la voce. Gli faccio il resoconto della situazione, gli riferisco i sintomi… – dimmi, quanto tempo ancora…

– Fra poco sono lì.

E infatti, nel giro di qualche minuto è sul posto.

Visita Ela. Con cura. Lo osserviamo ansiosi.

– Al massimo qualche ora…

* * *

Chiamo tutti i preti che conosco. Nessuno risponde al telefono. È vero che aveva ricevuto tutti i santi sacramenti, ma il Viatico nell’ora della morte… Alla fine a richiamare è il parroco, padre Jerzy.

– Cos’è successo?… Sarò lì tra qualche minuto…

Solleva in alto un pezzetto bianco di Pane:

– Ecco l’Agnello di Dio…

Ela manda giù il Corpo di Cristo con qualche goccio d’acqua. L’ha mandato giù!
Il rumore del motore dell’auto del parroco svanisce dietro la collina. Restiamo di nuovo da soli. Ela, le nostre figlie e io… Non c’è più alcuna paura. Solo tristezza. Tra le dita faccio scorrere i grani del rosario. Mi gira la testa, è in fiamme.

* * *

Sono venuti i nostri amici, Basia e Piotrek. Il mozzicone di un cero diffonde una luce giallognola. Recitiamo le preghiere per i morenti…

Entrambe le gatte, Brunia [“la Brunetta”] e Stara Kocica [“la Vecchia Gatta”], rimangono sul letto di Ela. Si stringono a lei. Soltanto Rudzia [“la Rossa”], la meticcia, sembra evitarla dal momento in cui, per l’unica volta nella sua breve vita da cane, aveva iniziato a guaire il giorno in cui Ela era stata portata per l’ultima volta in ospedale…

Brunia si stringe alla sua mano dolorante, mai rimarginata. Un movimento impercettibile, come se Ela volesse accarezzare per l’ultima volta con le dita quella pelliccia nera e vellutata… Non ci arriva, le dita ricadono impotenti…

Dalla smorfia sul suo viso riusciamo a capire che il dolore si sta facendo di nuovo più forte. L’ennesima iniezione di morfina.

Sono passate le 21:00. Basia e Piotrek ci salutano. Restiamo di nuovo soli.

Il tempo scorre lentamente… molto lentamente… la stanchezza aumenta. Riesco a malapena a tenere gli occhi aperti. Le mie palpebre si chiudono da sole. Devo coricarmi. Anche solo per un attimo. Non sono così forte come Asia. Sono terribilmente stanco.

Nel dormiveglia mi giunge la voce di mia figlia.

– La mamma è morta…

Do un’occhiata all’orologio. Le 00:55.

L’eterno riposo, donale, o Signore… L’eterno riposo, donale, o Signore… L’eterno riposo, donale, o Signore… L’eterno riposo, donale, o Signore… – è l’unica frase che si agita nella mia testa.

Asia e Marta vestono la mamma. Io le aiuto a sollevare o sostenere il corpo. Che nessun’altra mano, oltre le nostre…

Di nuovo il rombo di un’auto… Diversa…

– Sì, è qui… Prego, seguitemi, di qua…

Richiudono il sacco di plastica…

Per l’ultima volta Ela varca la porta d’ingresso… Non farà mai più ritorno in casa nostra…

Resto in piedi accanto al cancello e osservo le luci dell’auto che si allontana e la porta via nell’oscurità della notte di novembre… Appena una manciata di secondi e resto da solo, a tu per tu con il silenzio della strada vuota, illuminata dal riflesso giallastro e pallido delle lampade al sodio…

Rientro in casa. Lancio un’occhiata alla sveglia in camera di Ela. È ferma. Bisogna caricarla. Allungo la mano per prenderla, ma la tiro indietro immediatamente. Le lancette immobili indicano due minuti dopo le tre. È il 3 novembre del 2014. Se ieri era domenica, oggi deve essere il giorno della commemorazione dei defunti…

* * *

5 novembre. Il giorno del funerale è meraviglioso, soleggiato, caldo. La chiesa di san Giuseppe è piena. Nove sacerdoti celebrano il servizio funebre. Mai, assolutamente mai me lo sarei aspettato… perché, poi, avrei dovuto? Mi sento completamente estraniato. Il corteo si muove verso il cancello del Cimitero della Cattedrale. Blocca il traffico stradale. Sugli alberi, le foglie autunnali tremolano al respiro leggero della brezza e luccicano in una fantastica varietà di colori. Su di esse danzano le piccole chiazze dorate della luce del sole…

La tomba viene sigillata.

E poi nient’altro che fiori, fiori, fiori… braccia piene di fiori… Corone, mazzi, singoli fiori… Non si vede più nulla sotto di essi.

È tutto finito…

* * *

12 novembre. Sono passati già nove giorni da quando ci siamo separati…

Guardo le due foto di Ela che sento più vicine nel mio cuore… Sulla prima è tranquilla, sebbene il suo volto sembri stanco e gli occhi siano socchiusi. E sulle labbra un’espressione che non somiglia né a un sorriso, né a una mezza smorfia… È in piedi su un tappeto multicolore di foglie cadute, sullo sfondo un tappeto identico, solo da qualche parte in lontananza si delinea il contorno irregolare e sfocato delle case di via Zamkowa…

Sulla seconda siamo seduti l’uno accanto all’altra su una panchina lungo la Vistola, io ho il capo chino, lei sorride appena…

Un nodo mi stringe la gola…

***

Non lo facevo da anni. Credevo che, crescendo, passi la voglia di scrivere poesie. E che io l’avessi già alle mie spalle. Ma lo stimolo era così forte che non sono stato in grado di oppormi. Le dita battono ritmicamente sulla tastiera. Non penso, non analizzo, non scelgo le parole, non smusso nulla. Le file di vocaboli compaiono da sole. Un verso dopo l’altro. È l’unico modo che ho per dire ancora  qualcosa a Ela… In maniera diretta, senza ripensarci, dal profondo del cuore…

Mi resta soltanto il tuo sorriso in una foto,
e in gola un nodo amaro,
e la speranza continua
di vederti in piedi accanto alla porta,
come ogni giorno
negli ultimi quarant’anni… 

Nella finestra chiusa il vago riflesso
del mio volto che fissa quel buio e quel vuoto
che in silenzio s’insinua tra il tramonto e l’alba
di notti afose in cui conto da solo i secondi…

Tante cose non dette
in quei momenti
in cui non v’era nulla a dividerci e tutto ci univa,
tante faville su gocce di rugiada,
tante chiazze di sole,
e nebbie e piogge d’autunno svanite per sempre…
non ti rimembra più neanche il cane della vicina…

Mi resta soltanto il tuo sorriso in una foto,
e in gola un nodo amaro,
e la speranza continua
di vederti in piedi accanto alla porta,
come ogni giorno
negli ultimi quarant’anni…

Ma i tuoi vestiti nell’armadio
sono riposti con cura,
soltanto le scarpe attendono in fila,
pronte ad uscire…

Anche le mie son pronte,
se non che…
il mio cuore ribelle
batte ancora… e batte…
e non vuole fermarsi…

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