Andrzej Juliusz Sarwa
VERSO L’ORIZZONTE (3)
racconti straordinari
tradotte da Marco Valenti
LA STREGA
Le sembrava di emergere da chissà dove, da un luogo incommensurabilmente lontano. Dal vuoto nero dell’oblio e del nulla. In quel momento era pura coscienza e nient’altro. Sospesa in uno spazio indefinito, sospesa tra l’essere e il non-essere sapeva solo una cosa, sapeva di esistere, semplicemente di esistere e basta.
E proprio quel pensiero la tormentava e le pulsava nel cervello:
– Io sono… Io sono… Io sono…
Non sapeva se a scorrere fossero i secondi o i secoli. I suoi occhi non registravano alcuna immagine. Le sue orecchie non percepivano suoni. Silenzio e oscurità. Totale, onnipresente, infinita…
Alla fine, lentamente, molto lentamente, iniziò a rendersi conto che stava subendo un graduale cambiamento. Iniziava a percepire di nuovo il proprio corpo. Un formicolio ai piedi, i muscoli addormentati delle braccia, una sgradevole pressione nella colonna vertebrale.
Iniziò a muovere delicatamente le dita, come se ancora non riuscisse a credere al fatto di poterle controllare secondo la propria volontà. E le sue dita, che gioia, le ubbidivano. Si piegavano e si stendevano seguendo il ritmo dei segnali inviati dalla mente.
Sentiva un peso schiacciarle il petto. No, non c’era niente che vi premeva sopra. Era solo l’aria, densa, immobile, che non aveva alcuna intenzione di portare nutrimento ai suoi polmoni, li riempiva senza saziarli.
Era di nuovo sé stessa. Oltre alla percezione ritornava lentamente anche la memoria, in cui scorrevano immagini dai colori vivaci di eventi passati…
Era estate. Sì, era estate. Delle malve crescevano in un giardino in miniatura oltre la finestra. Le piaceva osservare quei fiori rosa, bordò, gialli o bianchi che sembravano sorriderle. Le piaceva guardare le api che si posavano sui petali, si infilavano all’interno e, una volta consumato il dolce nettare, volavano via appesantite e tutte ricoperte di polline giallo.
A volte le faceva visita una gazza ladra. Era una gazza ladra piuttosto coraggiosa, capitava che si appollaiasse sul davanzale col capo piegato ad osservare la donna sdraiata. Poi volava via, sbattendo le ali in modo buffo come fanno le gazze.
Le piaceva guardare le formiche che, in un’interminabile processione, percorrevano sempre lo stesso e unico sentiero sul parapetto di legno intaccato dal tempo, fino a rintanarsi in una fessura tra l’infisso e l’anta della finestra dall’intonaco ormai scrostato…
Le piaceva starsene lì a guardare coricata, appoggiata ai guanciali impilati alle sue spalle, ma cos’altro avrebbe potuto fare?
Le malve sfiorirono. I gambi delle piante, una volta verdi e ora simili a sterpi, si seccarono e acquisirono un colorito bruno. La gazza non faceva più capolino all’interno della stanza da quando la finestra era stata serrata definitivamente, persino le formiche erano scomparse chissà dove.
E poi, poi cadde la prima neve. Vedeva i grossi fiocchi, simili a piume d’oca, che turbinavano nell’aria e, calando dal cielo senza alcun rumore, ricoprivano il terreno. Il freddo, non appena si fece più forte, riusciva di quando in quando a far scivolare le proprie dita gelide persino sotto la pesante coperta…
Rimembrò il suono delle campane che richiamavano i fedeli alla veglia di Natale. Sdraiata a letto mentre passavano i giorni, i mesi, si succedevano le stagioni, infine imparò a distinguerne il suono. Suonavano le campane della parrocchia, quelle di san Pietro e di santa Maria Maddalena… E suonavano le campane di tutte le altre chiese…
Ah, come le sarebbe piaciuto poter sconfiggere la propria debolezza, alzarsi, vestirsi e camminare in mezzo alla folla che seguiva il richiamo delle campane. Come avrebbe voluto sentire il piacevole scricchiolio della neve gelida sotto i piedi. Come avrebbe voluto esalare piccole nuvolette di vapore, che si sarebbero poi trasformate in brina depositandosi sui suoi capelli ribelli, scivolati fuori dal foulard.
Le campane smisero di suonare, e lei rimase da sola con il buio. Con il buio e con il silenzio. Probabilmente pianse, ma non lo ricorda per certo. Tuttavia sa di aver sentito una dolorosa contrazione stringerle la gola e di aver percepito una sensazione di collera priva di speranza.
E poi?
Poi il tempo iniziò a scorrere in maniera monotona. Gocciolava via costantemente, così come le gocce d’acqua gocciolavano dalla grondaia del tetto mentre il sole, sempre più caldo, si arrampicava sempre più in alto nel firmamento e scioglieva la neve sporca e ghiacciata…
La stanza venne imbiancata. Era pulita e ordinata. Aveva l’odore della calce fresca, di uova bollite, di salsiccia, di rafano e del licopodio con cui era stato decorato il cibo destinato alle feste di pasqua. Il tavolo intero era stato imbandito riccamente. Il diacono venne a benedire le vivande. Le disse qualcosa, ma lei non ricordava più le singole parole, il senso era all’incirca che Dio ci dona il dolore per sondare la nostra fede, come secoli prima aveva fatto con Giobbe.
E poi?… Poi qualcuno… non ricordava più chi… Poi qualcuno le aveva portato un mazzetto fatto con i primi denti di leone appena spuntati. Rivolse un sorriso a quei fiori. Vi immerse il viso, inalando con estrema delizia l’odore delicato, quasi inafferrabile, dell’inizio della primavera… Quello era il suo ultimo ricordo…
Ora era circondata dal buio e dal silenzio. Era forse notte? Probabilmente sì. Ma perché quel letto era così scomodo, così duro? E perché ai suoi polmoni mancava in continuazione l’aria?
Aveva riacquistato completamente la sensibilità, ma con essa venne colta da forti brividi. Tutto il suo corpo venne pervaso da un freddo penetrante che si infiltrava fin nella più piccola tra le fibre, impregnando persino l’interno delle sue ossa.
Iniziò a tremare, a sbattere i denti. Aveva freddo, le mancava l’aria.
“O mio Dio!” – pensava. – “Perché fa così freddo, perché mi manca l’aria?”
Avrebbe voluto avvolgersi ancora più strettamente nella coperta, infilarvi sotto anche la testa per riscaldare le membra intirizzite, ma la cercò invano con le mani. La coperta non c’era. Le sue dita, invece, scoprirono qualcos’altro. Da entrambi i lati c’erano delle assi di legno.
“Ma dove mi hanno portata?” – pensava. – “Perché mi hanno portata via dal mio letto e mi hanno sistemata su questa stretta branda? Oh! Gesù Cristo, dimmi che non me l’hanno fatto, dimmi che non mi hanno lasciata in ospedale? Sì, mi ricordo, era ciò che consigliava il dottore. Voleva portarmi via a san Geronimo o al santo Spirito. Ma io mi sono rifiutata. Chi finisce in ospedale per una volta, poi non ne esce più vivo… O forse le mie condizioni sono peggiorate e mi ci hanno portata contro la mia volontà?”
All’improvviso riacquistò le forze. Sapeva che sarebbe riuscita ad alzarsi da sola. In effetti doveva alzarsi per capire dove si trovava. Si sollevò repentinamente e… con un gemito di dolore ricadde di nuovo sulle spalle.
Aveva urtato la testa con tutta la propria forza contro qualcosa di rigido, qualcosa che si trovava proprio al di sopra di lei. Delle scintille colorate e dorate le turbinarono davanti agli occhi. Emise ancora una volta un gemito silenzioso. Quando il dolore si fece meno acuto allungò con attenzione le mani verso l’alto, per analizzare con il tatto ciò contro cui si era ferita la fronte. Si trattava di un’asse di legno.
Venne pervasa da una sorta di ansia, all’inizio non troppo forte, ma che si fece sempre più potente un momento dopo l’altro. Ne venne soffocata. Sentì una stretta dolorosa alla laringe, poi credette di sentire i propri capelli rizzarsi sulla sua testa.
Con le mani prese a tastare tutto intorno, alla cieca.
Assi di legno, assi di legno ovunque, ruvide e ancora profumate di resina. Assi di legno davanti, di dietro, ai lati, assi di legno sopra la sua testa. Con le dita percepiva i punti in cui si univano l’una all’altra. Ne percepiva le irregolarità e le nodosità.
Non voleva ammettere quel pensiero, se ne difendeva con tutte le proprie forze, lo allontanava dalla mente. Ma quel pensiero, invadente, l’unico pensiero razionale, ritornava incessantemente… Ritornava…
Capì di trovarsi all’interno di una bara.
La sua fronte si imperlò di un sudore freddo. Una volta, quando le dicevano che il sudore può anche essere freddo, non riusciva a capire come fosse possibile. In quel momento, invece, proprio un sudore di quel tipo iniziò a fluire da ogni poro della sua pelle, a colare lungo le sue guance in una serie di gelidi rivoli.
“E quindi, è così che è la morte? O mio dio!”
Pensò a dove potesse essere finita. Buio e silenzio. No, quello non era il paradiso. Il paradiso è bello e luminoso. E allora si trattava dell’inferno? O del purgatorio? No, non era né l’inferno né il purgatorio. Dopotutto, sentiva ancora il proprio corpo! Aveva ancora il proprio corpo! Respirava, anche se con difficoltà, ma respirava. E allora?… E allora era viva. Perché il respiro è vita.
Muoveva le labbra in silenzio, pregando Dio di avere pietà di lei. Adesso tutto era finalmente chiaro e ovvio. Era stata sepolta viva! Singhiozzò, pervasa dal terrore e dal dolore. Guaì, quasi come un cane.
“Oh! Non posso crederci! Non posso! Gesù, Giuseppe e Maria, aiutatemi!”
Comprese che avrebbe dovuto, anche solo per qualche momento, soffocare la paura dentro di sé per riflettere sulla situazione e riordinare i pensieri.
“Sì, sono dentro una bara. Ma dove? Se mi trovo in una tomba sotto il terreno è la fine. Sarà un’agonia molto lenta, fino al momento in cui si esaurirà fino all’ultimo l’aria all’interno della cassa… E se… E se non fosse così?”. Una volta aveva chiesto di essere sepolta nei sotterranei della chiesa parrocchiale…
Con una grande fatica a causa dello spazio ristretto, si voltò su in fianco, poi sulla pancia. Si sollevò sui gomiti e sulle ginocchia, spingendo con il dorso inarcato, spingendo con tutte le proprie forze sul coperchio della bara. La paura terrificante che provava moltiplicava le sue forze. Le faceva male la spina dorsale, ma non vi faceva caso, spingeva e spingeva senza fermarsi. Ma i suoi sforzi si rivelarono inutili. Le assi di legno, fresche, forti, impregnate di resina, scricchiolarono appena, ma non intendevano saltare via e liberarla da quella trappola.
Rimase per qualche tempo sdraiata sulla pancia, ansimando pesantemente e recuperando le forze.
Era determinata, non intendeva darla per vinta dopo il primo tentativo fallito.
“Se c’è della terra che preme sul coperchio mi stancherò e basta, senza ottenere nulla…”
Si sollevò di nuovo sui gomiti e sulle ginocchia e spinse di nuovo contro il lato superiore della bara. E all’improvviso…
“Oh! Grazie, mio Dio!” …all’improvviso riuscì a sentire un colpo secco. Era riuscita a spingere su uno dei chiodi che tenevano insieme la parte inferiore e quella superiore della bara.
Mai in tutta la sua breve vita aveva provato una tale gioia come in quel momento! Ormai sapeva che ce l’avrebbe fatta, che si sarebbe liberata, che sarebbe stata libera! Libera e in salute! Sicuramente in salute: dal momento che in lei c’era tutta quella forza, ciò significava senza ombra di dubbio che finalmente la malattia l’aveva abbandonata!
Ancora un piccolo sforzo… e ancora uno…
Di nuovo un colpo secco, di nuovo un chiodo che si allentava, poi si tese ancora un’ultima volta e spinse contro il coperchio, che saltò via repentinamente e con uno schianto sordo cadde giù e rovinò sul pavimento.
Si sedette e prese aria nel petto una volta, due, tre. Respirava a grandi boccate, fino a sentire un leggero capogiro. Era libera!
Ma poco dopo, non appena il senso di gioia si era sbiadito e affievolito, sentì di nuovo freddo. Si trovava all’interno di un sotterraneo, ma vi regnava un’oscurità imperscrutabile, per cui non riuscì a scorgere nulla né a trovare una via d’uscita.
Tastava con le mani tutt’intorno trovando ovunque altre bare. Capì di trovarsi all’interno di una cripta piena fino all’orlo di cadaveri. La ragione le suggerì che, dal momento che probabilmente non era passato molto tempo dal momento del funerale, la sua bara si trovava vicino all’entrata.
Ma come avrebbe potuto trovarla? E se anche l’avesse trovata, che direzione avrebbe dovuto seguire, dove sarebbe dovuta andare, dove avrebbe potuto trovare aiuto? Nonostante tutto, era piena di fiducia. Sicuramente la Provvidenza vegliava su di lei, dal momento che era riuscita a spingere via il coperchio e ad uscire fuori? Si consolò, pensando che anche in futuro il destino le sarebbe stato favorevole.
All’improvviso si rese conto che il buio della cripta mortuaria non era affatto così denso e nero come la pece, come le era sembrato in precedenza. Ecco che iniziava a percepire il contorno degli oggetti che la circondavano. L’oscurità appiccicosa stava chiaramente cedendo il passo al grigiore del mattino, che si stava lentamente risvegliando.
Si guardò intorno con attenzione, ispezionando con cura l’interno del sepolcro. Appena sotto al soffitto, così in alto che non l’avrebbe potuto raggiungere in nessun modo, sottile come la feritoia di una cinta muraria, vide il rettangolo di una finestrella che si riempiva piano piano di luce.
La sua bara si trovava vicino alla porta, a sinistra dell’entrata, il coperchio era caduto sul pavimento di mattoni, sul passaggio che dall’ingresso conduceva al muro di fronte, al quale era appeso un gigantesco crocifisso.
Camminò verso la porta, premette la grande maniglia assai arrugginita e, una volta aperta la porta, avrebbe voluto abbandonare quel luogo ripugnante. Ma la porta non si dischiuse. Chiusa a chiave, essa costituiva una barriera insuperabile.
Il senso di sgomento e terrore ritornò in una nuova ondata. Era in trappola.
“Mi metterò a gridare” – pensò guardando la piccola finestrella sotto al soffitto. – “Mi metterò a gridare. Qualcuno mi sentirà. Qualcuno mi deve sentire! Verranno a liberarmi! Mi faranno uscire da qui!”
Tremava, in preda ai brividi. Il freddo iniziò a paralizzare i suoi movimenti, tremava e sbatteva i denti. Si guardò intorno impotente alla ricerca di qualcosa che avrebbe potuto usare per coprirsi, ma oltre alle file di bare mute e qualche mozzicone di candela, lì dentro non c’era nulla.
“Oddio! Se non mi riscaldo non sarò in grado di emettere neanche un suono…”
Un pensiero le venne in mente, ma lo allontanò immediatamente, atterrita. Ma, man mano che il suo corpo iniziava a gelare sempre di più e aveva l’impressione che nelle sue vene non scorresse più sangue, ma rivoli d’acqua mista a frammenti di ghiaccio, permise a quel pensiero di annidarsi nel suo cervello definitivamente.
Saltellò sul posto per qualche tempo e agitò le braccia nel tentativo dar vita nel proprio corpo anche a una quantità minima di calore. Poi strofinò le mani una contro l’altra per far ritornare la sensibilità nelle dita e si avvicinò a una fila di bare, nuove a prima vista, che non erano marce da tempo e che non si sbriciolavano al tatto.
Tentò di sollevare i coperchi con le mani. Una volta, due, cinque. Erano fissate saldamente con dei solidi chiodi. Finalmente uno dei coperchi si aprì, rivelando il proprio macabro contenuto.
All’interno giaceva un uomo mezzo marcio, con indosso, chissà perché, un caldo caffettano di raso foderato di pelliccia di zibellino. Oh, era proprio ciò di cui aveva bisogno! Sebbene il fetore l’avesse colpita direttamente sul viso facendole venire la nausea, sapeva che solo quel caffettano avrebbe potuto salvarle la vita proteggendola dal freddo penetrante.
Con disgusto sfilò i grossi bottoni massicci, fatti d’argento ormai annerito e decorati con un motivo stravagante. Con disgusto sollevò una delle braccia del defunto verso l’alto e sfilò la manica. Poi fece lo stesso con l’altra. Sotto le dita sentiva il corpo molle del cadavere che si sfaldava. Non toccava direttamente il marciume, isolato grazie allo spesso strato di indumenti indossati dal defunto, ma non riuscì comunque a sopportare il senso di disgusto e sentì lo stomaco strisciarle fin sotto alla gola.
L’impresa più difficile fu sfilare il caffettano da sotto alle spalle del cadavere. Ma riuscì anche in quello. Richiuse la bara al più presto possibile e corse via con la refurtiva fin sotto la porta. Il caffettano puzzava, puzzava così forte che avrebbe voluto gettarlo lontano, ma il gelo la attaccò di nuovo con il doppio della forza. Si avvolse dunque nella pelliccia di zibellino e, dopo qualche tempo, iniziò finalmente a provare un senso di sollievo. Aveva caldo. Ma la sua sofferenza non era finita. Questa volta, infatti, fu il suo stomaco a rivendicare i propri diritti. Ciò che aveva fatto era ripugnante, ma aveva conquistato un vestito; per quanto riguardava il cibo, però, non avrebbe potuto fare altro che immaginarlo in sogno.
Si sedette sul coperchio della bara, adagiato sul pavimento di mattoni, e scoppiò a piangere. Il pianto le portò un po’ di sollievo, ma non affievolì affatto la fame che provava.
La fame le dilaniava le interiora, le comprimeva in un crampo doloroso, le serrava lo stomaco. Oh, un solo boccone, solo un misero boccone! Grattò via un pezzetto di intonaco dalla parete e tentò di masticarlo ma, quando la sabbia le scricchiolò tra i denti, lo sputò disgustata. Fu allora che il suo sguardo cadde sui mozziconi delle candele di cera che si trovavano per terra accanto alla porta.
Li sollevava uno alla volta, ne mordeva via un pezzetto, lo mandava giù. E, nonostante ci fosse soltanto una quantità minima di quell’alimento, la sua fame venne placata.
Fu allora che iniziò a gridare. A gridare con tutte le proprie forze.
– Qualcuno mi aiuti! Aiuuuto! Aiutatemiii!
Le parole rimbalzavano sordamente dalle pareti della cripta, ritornando verso di lei ormai smorzate.
Gridò fino a quando non ce la fece più, poi si sedette, riprese fiato con la bocca spalancata e si riposò e, una volta che il suo cuore, impazzito per lo sforzo, aveva ripreso di nuovo a battere in maniera ritmica, ricominciò a gridare ancora.
– Ehilààà!!! In nome di Dio!!! Aiutooo! Fatemi uscire di qui! Fatemi uscire!
L’alone di luce grigiastra del sotterraneo iniziò a cedere il passo al buio sempre più denso. Il giorno stava volgendo al termine e nessuno veniva ad aiutarla. Con la voce roca per le grida, stanca, affamata e assetata, si appoggiò sfinita alla porta che separava il mondo dei morti dal mondo dei vivi e cadde in una sorta di dormiveglia.
Fu tormentata da terribili visioni notturne, più e più volte interrotte da un fremito che la risvegliava. L’incubo del giorno si trasformò nell’incubo della notte. La gioia del recente senso di speranza venne respinta dalla disperazione e dal terrore.
Ma non voleva cedere alla negatività. Un residuo di fede si celava ancora nel suo cuore. Un residuo di fede nella possibilità che la salvezza sarebbe dovuta giungere insieme al mattino. Al mattino, quando il canto dei galli giunse da chissà dove oltre della Vistola, e lei cadde finalmente in un sonno profondo che le donò riposo e sollievo.
Un barlume grigiastro illuminò l’interno del sepolcro non appena fu sveglia e aprì gli occhi. Sentì un gran dolore in tutte le ossa a causa della notte passata scomodamente in posizione accovacciata. Si alzò, dunque, e si sgranchì fino a farsi scricchiolare le articolazioni.
Non aveva freddo, la pelliccia di zibellino svolgeva perfettamente il proprio compito. Non aveva nemmeno fame. In cambio, però, la sua mente venne pervasa da un solo, unico bisogno:
“Bere! Bere! Bere!…”.
Ogni più piccola fibra, ogni tendine, ogni ossicino, tutto il suo corpo implorava un po’ d’acqua, pretendeva un po’ d’acqua, esigeva un po’ d’acqua, desiderava un po’ d’acqua! Tutto il resto, anche la necessità di uscire fuori da quel sotterraneo, tutto il resto divenne meno importante. Tutto, pur di inumidirsi le labbra inaridite. La lingua, ormai gonfia, non aveva più molto spazio all’interno della bocca.
Sul muro di pietra, sporco e biancastro, molto più in basso rispetto alla finestrella, si era depositata della rugiada. Vi avvicinò la bara, la mise in piedi e, arrampicatasi su quell’appiglio instabile, attaccò le labbra alla pietra.
Leccava via una goccia dopo l’altra, cercando di non perderne, di non sprecarne o saltarne nemmeno una. Ma quando le ebbe bevute tutte, la sua sete non venne affatto placata, al contrario.
Scivolò giù dalla bara, si avvicinò alla pesante porta di quercia, cadde in ginocchio, picchiò con i pugni contro le pesanti assi di legno, sussurrando e gemendo allo stesso tempo:
– Santo cielo! Aiuto!…
Toccò involontariamente con la mano la propria camicia e sentì che era bagnata. Evidentemente mentre leccava via la rugiada la stoffa si era impregnata per l’umidità. La prese, dunque, tra i denti e la masticò, succhiandone via tutto il possibile, ansimando silenziosamente.
In quel momento alle sue orecchie giunse il rumore di passi umani. Qualcuno si stava avvicinando…
“Grazie, mio Dio, grazie per avermi ascoltata! Grazie, Gesù Cristo, per avermi aiutata!”
Qualcuno si stava avvicinando alla cripta.
Ecco lo sferragliare del ferro contro il ferro. Una chiave veniva infilata nella serratura. Lo stridio del chiavistello che cedeva. Si scostò un poco, in modo che chi stava per entrare non le precipitasse addosso e si alzò in piedi, sempre masticando la camicia umida per ingannare la sete.
La porta si aprì con il cigolio impietoso dei cardini consumati dalla ruggine. All’inizio scorse una mano con una candela, poi il becchino che entrava all’interno. Dietro di lui comparve la sagoma di un sacerdote con indosso l’abito talare e la berretta.
Vedendola, il becchino si fece prima il segno della croce, poi sputò per tre volte e, avvicinandosi alla donna con un balzo, prese a tirarle la camicia via dalle labbra.
“Perché mai lo sta facendo?” – le passò per la testa. – “Perché?”
L’uomo non si arrendeva, le strappava via la camicia un pezzo per volta, mentre lei vi serrava istintivamente i denti.
– Vede, padre, glielo avevo detto che qui non avremmo avuto a che fare con un essere umano. È una strega! Sta divorando la propria camicia funebre! Più chiaro di così! – disse il becchino scaraventando la donna per terra e premendole le proprie ginocchia contro il petto.
– Mi passi il badile, reverendo, è lì, sotto la porta. Che dio ci aiuti! Non c’è altro modo!
Senza entrare nella cripta il prete si sporse soltanto il più in avanti possibile oltre la soglia, e passò l’oggetto al becchino.
Quest’ultimo si alzò, spingendo con tutte le proprie forze la donna a terra con il piede e impedendole di eseguire qualsiasi movimento.
Lei gemeva appena, e in quel suo gemito era possibile distinguere delle singole parole:
– Gesù… aiuto… Gesù… aiuto…
Sentendo quelle parole il prete entrò nel sepolcro per avvicinarsi alla donna a terra, ma il becchino lo trattenne con un gesto:
– Non può essere altrimenti, si tratta di una possessione diabolica!
Poi sollevò in alto il badile e, con un ampio slancio, ne infilò la punta nella gola della donna. Quest’ultima rantolò in maniera così raccapricciante che un brivido di sgomento corse lungo la schiena dei due uomini, poi la donna prese a dimenarsi, picchiando il pavimento con le mani e grattando con le dita.
Il becchino non cedeva, alzava il badile e colpiva, colpiva, colpiva. Quasi in preda al delirio, picchiò fino a quando non riuscì a staccarle la testa dal corpo. La testa rotolò fin sotto ai piedi del prete, che saltò via intimorito. Dal collo del cadavere schizzò un fiotto di sangue.
Colò a lungo, raccogliendosi in una grande pozzanghera. Sulla sua superficie vitrea si specchiava la luce danzante della candela.
– Reverendo, può anche andare ad occuparsi dei suoi doveri. Adesso posso cavarmela anche da solo. Grazie a Dio abbiamo rimediato in tempo al male che, dall’interno di questo sepolcro, si sarebbe potuto diffondere in tutta la città. Grazie a Dio, appena in tempo…
E proprio quel pensiero la tormentava e le pulsava nel cervello:
– Io sono… Io sono… Io sono…
Non sapeva se a scorrere fossero i secondi o i secoli. I suoi occhi non registravano alcuna immagine. Le sue orecchie non percepivano suoni. Silenzio e oscurità. Totale, onnipresente, infinita…
Alla fine, lentamente, molto lentamente, iniziò a rendersi conto che stava subendo un graduale cambiamento. Iniziava a percepire di nuovo il proprio corpo. Un formicolio ai piedi, i muscoli addormentati delle braccia, una sgradevole pressione nella colonna vertebrale.
Iniziò a muovere delicatamente le dita, come se ancora non riuscisse a credere al fatto di poterle controllare secondo la propria volontà. E le sue dita, che gioia, le ubbidivano. Si piegavano e si stendevano seguendo il ritmo dei segnali inviati dalla mente.
Sentiva un peso schiacciarle il petto. No, non c’era niente che vi premeva sopra. Era solo l’aria, densa, immobile, che non aveva alcuna intenzione di portare nutrimento ai suoi polmoni, li riempiva senza saziarli.
Era di nuovo sé stessa. Oltre alla percezione ritornava lentamente anche la memoria, in cui scorrevano immagini dai colori vivaci di eventi passati…
Era estate. Sì, era estate. Delle malve crescevano in un giardino in miniatura oltre la finestra. Le piaceva osservare quei fiori rosa, bordò, gialli o bianchi che sembravano sorriderle. Le piaceva guardare le api che si posavano sui petali, si infilavano all’interno e, una volta consumato il dolce nettare, volavano via appesantite e tutte ricoperte di polline giallo.
A volte le faceva visita una gazza ladra. Era una gazza ladra piuttosto coraggiosa, capitava che si appollaiasse sul davanzale col capo piegato ad osservare la donna sdraiata. Poi volava via, sbattendo le ali in modo buffo come fanno le gazze.
Le piaceva guardare le formiche che, in un’interminabile processione, percorrevano sempre lo stesso e unico sentiero sul parapetto di legno intaccato dal tempo, fino a rintanarsi in una fessura tra l’infisso e l’anta della finestra dall’intonaco ormai scrostato…
Le piaceva starsene lì a guardare coricata, appoggiata ai guanciali impilati alle sue spalle, ma cos’altro avrebbe potuto fare?
Le malve sfiorirono. I gambi delle piante, una volta verdi e ora simili a sterpi, si seccarono e acquisirono un colorito bruno. La gazza non faceva più capolino all’interno della stanza da quando la finestra era stata serrata definitivamente, persino le formiche erano scomparse chissà dove.
E poi, poi cadde la prima neve. Vedeva i grossi fiocchi, simili a piume d’oca, che turbinavano nell’aria e, calando dal cielo senza alcun rumore, ricoprivano il terreno. Il freddo, non appena si fece più forte, riusciva di quando in quando a far scivolare le proprie dita gelide persino sotto la pesante coperta…
Rimembrò il suono delle campane che richiamavano i fedeli alla veglia di Natale. Sdraiata a letto mentre passavano i giorni, i mesi, si succedevano le stagioni, infine imparò a distinguerne il suono. Suonavano le campane della parrocchia, quelle di san Pietro e di santa Maria Maddalena… E suonavano le campane di tutte le altre chiese…
Ah, come le sarebbe piaciuto poter sconfiggere la propria debolezza, alzarsi, vestirsi e camminare in mezzo alla folla che seguiva il richiamo delle campane. Come avrebbe voluto sentire il piacevole scricchiolio della neve gelida sotto i piedi. Come avrebbe voluto esalare piccole nuvolette di vapore, che si sarebbero poi trasformate in brina depositandosi sui suoi capelli ribelli, scivolati fuori dal foulard.
Le campane smisero di suonare, e lei rimase da sola con il buio. Con il buio e con il silenzio. Probabilmente pianse, ma non lo ricorda per certo. Tuttavia sa di aver sentito una dolorosa contrazione stringerle la gola e di aver percepito una sensazione di collera priva di speranza.
E poi?
Poi il tempo iniziò a scorrere in maniera monotona. Gocciolava via costantemente, così come le gocce d’acqua gocciolavano dalla grondaia del tetto mentre il sole, sempre più caldo, si arrampicava sempre più in alto nel firmamento e scioglieva la neve sporca e ghiacciata…
La stanza venne imbiancata. Era pulita e ordinata. Aveva l’odore della calce fresca, di uova bollite, di salsiccia, di rafano e del licopodio con cui era stato decorato il cibo destinato alle feste di pasqua. Il tavolo intero era stato imbandito riccamente. Il diacono venne a benedire le vivande. Le disse qualcosa, ma lei non ricordava più le singole parole, il senso era all’incirca che Dio ci dona il dolore per sondare la nostra fede, come secoli prima aveva fatto con Giobbe.
E poi?… Poi qualcuno… non ricordava più chi… Poi qualcuno le aveva portato un mazzetto fatto con i primi denti di leone appena spuntati. Rivolse un sorriso a quei fiori. Vi immerse il viso, inalando con estrema delizia l’odore delicato, quasi inafferrabile, dell’inizio della primavera… Quello era il suo ultimo ricordo…
Ora era circondata dal buio e dal silenzio. Era forse notte? Probabilmente sì. Ma perché quel letto era così scomodo, così duro? E perché ai suoi polmoni mancava in continuazione l’aria?
Aveva riacquistato completamente la sensibilità, ma con essa venne colta da forti brividi. Tutto il suo corpo venne pervaso da un freddo penetrante che si infiltrava fin nella più piccola tra le fibre, impregnando persino l’interno delle sue ossa.
Iniziò a tremare, a sbattere i denti. Aveva freddo, le mancava l’aria.
“O mio Dio!” – pensava. – “Perché fa così freddo, perché mi manca l’aria?”
Avrebbe voluto avvolgersi ancora più strettamente nella coperta, infilarvi sotto anche la testa per riscaldare le membra intirizzite, ma la cercò invano con le mani. La coperta non c’era. Le sue dita, invece, scoprirono qualcos’altro. Da entrambi i lati c’erano delle assi di legno.
“Ma dove mi hanno portata?” – pensava. – “Perché mi hanno portata via dal mio letto e mi hanno sistemata su questa stretta branda? Oh! Gesù Cristo, dimmi che non me l’hanno fatto, dimmi che non mi hanno lasciata in ospedale? Sì, mi ricordo, era ciò che consigliava il dottore. Voleva portarmi via a san Geronimo o al santo Spirito. Ma io mi sono rifiutata. Chi finisce in ospedale per una volta, poi non ne esce più vivo… O forse le mie condizioni sono peggiorate e mi ci hanno portata contro la mia volontà?”
All’improvviso riacquistò le forze. Sapeva che sarebbe riuscita ad alzarsi da sola. In effetti doveva alzarsi per capire dove si trovava. Si sollevò repentinamente e… con un gemito di dolore ricadde di nuovo sulle spalle.
Aveva urtato la testa con tutta la propria forza contro qualcosa di rigido, qualcosa che si trovava proprio al di sopra di lei. Delle scintille colorate e dorate le turbinarono davanti agli occhi. Emise ancora una volta un gemito silenzioso. Quando il dolore si fece meno acuto allungò con attenzione le mani verso l’alto, per analizzare con il tatto ciò contro cui si era ferita la fronte. Si trattava di un’asse di legno.
Venne pervasa da una sorta di ansia, all’inizio non troppo forte, ma che si fece sempre più potente un momento dopo l’altro. Ne venne soffocata. Sentì una stretta dolorosa alla laringe, poi credette di sentire i propri capelli rizzarsi sulla sua testa.
Con le mani prese a tastare tutto intorno, alla cieca.
Assi di legno, assi di legno ovunque, ruvide e ancora profumate di resina. Assi di legno davanti, di dietro, ai lati, assi di legno sopra la sua testa. Con le dita percepiva i punti in cui si univano l’una all’altra. Ne percepiva le irregolarità e le nodosità.
Non voleva ammettere quel pensiero, se ne difendeva con tutte le proprie forze, lo allontanava dalla mente. Ma quel pensiero, invadente, l’unico pensiero razionale, ritornava incessantemente… Ritornava…
Capì di trovarsi all’interno di una bara.
La sua fronte si imperlò di un sudore freddo. Una volta, quando le dicevano che il sudore può anche essere freddo, non riusciva a capire come fosse possibile. In quel momento, invece, proprio un sudore di quel tipo iniziò a fluire da ogni poro della sua pelle, a colare lungo le sue guance in una serie di gelidi rivoli.
“E quindi, è così che è la morte? O mio dio!”
Pensò a dove potesse essere finita. Buio e silenzio. No, quello non era il paradiso. Il paradiso è bello e luminoso. E allora si trattava dell’inferno? O del purgatorio? No, non era né l’inferno né il purgatorio. Dopotutto, sentiva ancora il proprio corpo! Aveva ancora il proprio corpo! Respirava, anche se con difficoltà, ma respirava. E allora?… E allora era viva. Perché il respiro è vita.
Muoveva le labbra in silenzio, pregando Dio di avere pietà di lei. Adesso tutto era finalmente chiaro e ovvio. Era stata sepolta viva! Singhiozzò, pervasa dal terrore e dal dolore. Guaì, quasi come un cane.
“Oh! Non posso crederci! Non posso! Gesù, Giuseppe e Maria, aiutatemi!”
Comprese che avrebbe dovuto, anche solo per qualche momento, soffocare la paura dentro di sé per riflettere sulla situazione e riordinare i pensieri.
“Sì, sono dentro una bara. Ma dove? Se mi trovo in una tomba sotto il terreno è la fine. Sarà un’agonia molto lenta, fino al momento in cui si esaurirà fino all’ultimo l’aria all’interno della cassa… E se… E se non fosse così?”. Una volta aveva chiesto di essere sepolta nei sotterranei della chiesa parrocchiale…
Con una grande fatica a causa dello spazio ristretto, si voltò su in fianco, poi sulla pancia. Si sollevò sui gomiti e sulle ginocchia, spingendo con il dorso inarcato, spingendo con tutte le proprie forze sul coperchio della bara. La paura terrificante che provava moltiplicava le sue forze. Le faceva male la spina dorsale, ma non vi faceva caso, spingeva e spingeva senza fermarsi. Ma i suoi sforzi si rivelarono inutili. Le assi di legno, fresche, forti, impregnate di resina, scricchiolarono appena, ma non intendevano saltare via e liberarla da quella trappola.
Rimase per qualche tempo sdraiata sulla pancia, ansimando pesantemente e recuperando le forze.
Era determinata, non intendeva darla per vinta dopo il primo tentativo fallito.
“Se c’è della terra che preme sul coperchio mi stancherò e basta, senza ottenere nulla…”
Si sollevò di nuovo sui gomiti e sulle ginocchia e spinse di nuovo contro il lato superiore della bara. E all’improvviso…
“Oh! Grazie, mio Dio!” …all’improvviso riuscì a sentire un colpo secco. Era riuscita a spingere su uno dei chiodi che tenevano insieme la parte inferiore e quella superiore della bara.
Mai in tutta la sua breve vita aveva provato una tale gioia come in quel momento! Ormai sapeva che ce l’avrebbe fatta, che si sarebbe liberata, che sarebbe stata libera! Libera e in salute! Sicuramente in salute: dal momento che in lei c’era tutta quella forza, ciò significava senza ombra di dubbio che finalmente la malattia l’aveva abbandonata!
Ancora un piccolo sforzo… e ancora uno…
Di nuovo un colpo secco, di nuovo un chiodo che si allentava, poi si tese ancora un’ultima volta e spinse contro il coperchio, che saltò via repentinamente e con uno schianto sordo cadde giù e rovinò sul pavimento.
Si sedette e prese aria nel petto una volta, due, tre. Respirava a grandi boccate, fino a sentire un leggero capogiro. Era libera!
Ma poco dopo, non appena il senso di gioia si era sbiadito e affievolito, sentì di nuovo freddo. Si trovava all’interno di un sotterraneo, ma vi regnava un’oscurità imperscrutabile, per cui non riuscì a scorgere nulla né a trovare una via d’uscita.
Tastava con le mani tutt’intorno trovando ovunque altre bare. Capì di trovarsi all’interno di una cripta piena fino all’orlo di cadaveri. La ragione le suggerì che, dal momento che probabilmente non era passato molto tempo dal momento del funerale, la sua bara si trovava vicino all’entrata.
Ma come avrebbe potuto trovarla? E se anche l’avesse trovata, che direzione avrebbe dovuto seguire, dove sarebbe dovuta andare, dove avrebbe potuto trovare aiuto? Nonostante tutto, era piena di fiducia. Sicuramente la Provvidenza vegliava su di lei, dal momento che era riuscita a spingere via il coperchio e ad uscire fuori? Si consolò, pensando che anche in futuro il destino le sarebbe stato favorevole.
All’improvviso si rese conto che il buio della cripta mortuaria non era affatto così denso e nero come la pece, come le era sembrato in precedenza. Ecco che iniziava a percepire il contorno degli oggetti che la circondavano. L’oscurità appiccicosa stava chiaramente cedendo il passo al grigiore del mattino, che si stava lentamente risvegliando.
Si guardò intorno con attenzione, ispezionando con cura l’interno del sepolcro. Appena sotto al soffitto, così in alto che non l’avrebbe potuto raggiungere in nessun modo, sottile come la feritoia di una cinta muraria, vide il rettangolo di una finestrella che si riempiva piano piano di luce.
La sua bara si trovava vicino alla porta, a sinistra dell’entrata, il coperchio era caduto sul pavimento di mattoni, sul passaggio che dall’ingresso conduceva al muro di fronte, al quale era appeso un gigantesco crocifisso.
Camminò verso la porta, premette la grande maniglia assai arrugginita e, una volta aperta la porta, avrebbe voluto abbandonare quel luogo ripugnante. Ma la porta non si dischiuse. Chiusa a chiave, essa costituiva una barriera insuperabile.
Il senso di sgomento e terrore ritornò in una nuova ondata. Era in trappola.
“Mi metterò a gridare” – pensò guardando la piccola finestrella sotto al soffitto. – “Mi metterò a gridare. Qualcuno mi sentirà. Qualcuno mi deve sentire! Verranno a liberarmi! Mi faranno uscire da qui!”
Tremava, in preda ai brividi. Il freddo iniziò a paralizzare i suoi movimenti, tremava e sbatteva i denti. Si guardò intorno impotente alla ricerca di qualcosa che avrebbe potuto usare per coprirsi, ma oltre alle file di bare mute e qualche mozzicone di candela, lì dentro non c’era nulla.
“Oddio! Se non mi riscaldo non sarò in grado di emettere neanche un suono…”
Un pensiero le venne in mente, ma lo allontanò immediatamente, atterrita. Ma, man mano che il suo corpo iniziava a gelare sempre di più e aveva l’impressione che nelle sue vene non scorresse più sangue, ma rivoli d’acqua mista a frammenti di ghiaccio, permise a quel pensiero di annidarsi nel suo cervello definitivamente.
Saltellò sul posto per qualche tempo e agitò le braccia nel tentativo dar vita nel proprio corpo anche a una quantità minima di calore. Poi strofinò le mani una contro l’altra per far ritornare la sensibilità nelle dita e si avvicinò a una fila di bare, nuove a prima vista, che non erano marce da tempo e che non si sbriciolavano al tatto.
Tentò di sollevare i coperchi con le mani. Una volta, due, cinque. Erano fissate saldamente con dei solidi chiodi. Finalmente uno dei coperchi si aprì, rivelando il proprio macabro contenuto.
All’interno giaceva un uomo mezzo marcio, con indosso, chissà perché, un caldo caffettano di raso foderato di pelliccia di zibellino. Oh, era proprio ciò di cui aveva bisogno! Sebbene il fetore l’avesse colpita direttamente sul viso facendole venire la nausea, sapeva che solo quel caffettano avrebbe potuto salvarle la vita proteggendola dal freddo penetrante.
Con disgusto sfilò i grossi bottoni massicci, fatti d’argento ormai annerito e decorati con un motivo stravagante. Con disgusto sollevò una delle braccia del defunto verso l’alto e sfilò la manica. Poi fece lo stesso con l’altra. Sotto le dita sentiva il corpo molle del cadavere che si sfaldava. Non toccava direttamente il marciume, isolato grazie allo spesso strato di indumenti indossati dal defunto, ma non riuscì comunque a sopportare il senso di disgusto e sentì lo stomaco strisciarle fin sotto alla gola.
L’impresa più difficile fu sfilare il caffettano da sotto alle spalle del cadavere. Ma riuscì anche in quello. Richiuse la bara al più presto possibile e corse via con la refurtiva fin sotto la porta. Il caffettano puzzava, puzzava così forte che avrebbe voluto gettarlo lontano, ma il gelo la attaccò di nuovo con il doppio della forza. Si avvolse dunque nella pelliccia di zibellino e, dopo qualche tempo, iniziò finalmente a provare un senso di sollievo. Aveva caldo. Ma la sua sofferenza non era finita. Questa volta, infatti, fu il suo stomaco a rivendicare i propri diritti. Ciò che aveva fatto era ripugnante, ma aveva conquistato un vestito; per quanto riguardava il cibo, però, non avrebbe potuto fare altro che immaginarlo in sogno.
Si sedette sul coperchio della bara, adagiato sul pavimento di mattoni, e scoppiò a piangere. Il pianto le portò un po’ di sollievo, ma non affievolì affatto la fame che provava.
La fame le dilaniava le interiora, le comprimeva in un crampo doloroso, le serrava lo stomaco. Oh, un solo boccone, solo un misero boccone! Grattò via un pezzetto di intonaco dalla parete e tentò di masticarlo ma, quando la sabbia le scricchiolò tra i denti, lo sputò disgustata. Fu allora che il suo sguardo cadde sui mozziconi delle candele di cera che si trovavano per terra accanto alla porta.
Li sollevava uno alla volta, ne mordeva via un pezzetto, lo mandava giù. E, nonostante ci fosse soltanto una quantità minima di quell’alimento, la sua fame venne placata.
Fu allora che iniziò a gridare. A gridare con tutte le proprie forze.
– Qualcuno mi aiuti! Aiuuuto! Aiutatemiii!
Le parole rimbalzavano sordamente dalle pareti della cripta, ritornando verso di lei ormai smorzate.
Gridò fino a quando non ce la fece più, poi si sedette, riprese fiato con la bocca spalancata e si riposò e, una volta che il suo cuore, impazzito per lo sforzo, aveva ripreso di nuovo a battere in maniera ritmica, ricominciò a gridare ancora.
– Ehilààà!!! In nome di Dio!!! Aiutooo! Fatemi uscire di qui! Fatemi uscire!
L’alone di luce grigiastra del sotterraneo iniziò a cedere il passo al buio sempre più denso. Il giorno stava volgendo al termine e nessuno veniva ad aiutarla. Con la voce roca per le grida, stanca, affamata e assetata, si appoggiò sfinita alla porta che separava il mondo dei morti dal mondo dei vivi e cadde in una sorta di dormiveglia.
Fu tormentata da terribili visioni notturne, più e più volte interrotte da un fremito che la risvegliava. L’incubo del giorno si trasformò nell’incubo della notte. La gioia del recente senso di speranza venne respinta dalla disperazione e dal terrore.
Ma non voleva cedere alla negatività. Un residuo di fede si celava ancora nel suo cuore. Un residuo di fede nella possibilità che la salvezza sarebbe dovuta giungere insieme al mattino. Al mattino, quando il canto dei galli giunse da chissà dove oltre della Vistola, e lei cadde finalmente in un sonno profondo che le donò riposo e sollievo.
Un barlume grigiastro illuminò l’interno del sepolcro non appena fu sveglia e aprì gli occhi. Sentì un gran dolore in tutte le ossa a causa della notte passata scomodamente in posizione accovacciata. Si alzò, dunque, e si sgranchì fino a farsi scricchiolare le articolazioni.
Non aveva freddo, la pelliccia di zibellino svolgeva perfettamente il proprio compito. Non aveva nemmeno fame. In cambio, però, la sua mente venne pervasa da un solo, unico bisogno:
“Bere! Bere! Bere!…”.
Ogni più piccola fibra, ogni tendine, ogni ossicino, tutto il suo corpo implorava un po’ d’acqua, pretendeva un po’ d’acqua, esigeva un po’ d’acqua, desiderava un po’ d’acqua! Tutto il resto, anche la necessità di uscire fuori da quel sotterraneo, tutto il resto divenne meno importante. Tutto, pur di inumidirsi le labbra inaridite. La lingua, ormai gonfia, non aveva più molto spazio all’interno della bocca.
Sul muro di pietra, sporco e biancastro, molto più in basso rispetto alla finestrella, si era depositata della rugiada. Vi avvicinò la bara, la mise in piedi e, arrampicatasi su quell’appiglio instabile, attaccò le labbra alla pietra.
Leccava via una goccia dopo l’altra, cercando di non perderne, di non sprecarne o saltarne nemmeno una. Ma quando le ebbe bevute tutte, la sua sete non venne affatto placata, al contrario.
Scivolò giù dalla bara, si avvicinò alla pesante porta di quercia, cadde in ginocchio, picchiò con i pugni contro le pesanti assi di legno, sussurrando e gemendo allo stesso tempo:
– Santo cielo! Aiuto!…
Toccò involontariamente con la mano la propria camicia e sentì che era bagnata. Evidentemente mentre leccava via la rugiada la stoffa si era impregnata per l’umidità. La prese, dunque, tra i denti e la masticò, succhiandone via tutto il possibile, ansimando silenziosamente.
In quel momento alle sue orecchie giunse il rumore di passi umani. Qualcuno si stava avvicinando…
“Grazie, mio Dio, grazie per avermi ascoltata! Grazie, Gesù Cristo, per avermi aiutata!”
Qualcuno si stava avvicinando alla cripta.
Ecco lo sferragliare del ferro contro il ferro. Una chiave veniva infilata nella serratura. Lo stridio del chiavistello che cedeva. Si scostò un poco, in modo che chi stava per entrare non le precipitasse addosso e si alzò in piedi, sempre masticando la camicia umida per ingannare la sete.
La porta si aprì con il cigolio impietoso dei cardini consumati dalla ruggine. All’inizio scorse una mano con una candela, poi il becchino che entrava all’interno. Dietro di lui comparve la sagoma di un sacerdote con indosso l’abito talare e la berretta.
Vedendola, il becchino si fece prima il segno della croce, poi sputò per tre volte e, avvicinandosi alla donna con un balzo, prese a tirarle la camicia via dalle labbra.
“Perché mai lo sta facendo?” – le passò per la testa. – “Perché?”
L’uomo non si arrendeva, le strappava via la camicia un pezzo per volta, mentre lei vi serrava istintivamente i denti.
– Vede, padre, glielo avevo detto che qui non avremmo avuto a che fare con un essere umano. È una strega! Sta divorando la propria camicia funebre! Più chiaro di così! – disse il becchino scaraventando la donna per terra e premendole le proprie ginocchia contro il petto.
– Mi passi il badile, reverendo, è lì, sotto la porta. Che dio ci aiuti! Non c’è altro modo!
Senza entrare nella cripta il prete si sporse soltanto il più in avanti possibile oltre la soglia, e passò l’oggetto al becchino.
Quest’ultimo si alzò, spingendo con tutte le proprie forze la donna a terra con il piede e impedendole di eseguire qualsiasi movimento.
Lei gemeva appena, e in quel suo gemito era possibile distinguere delle singole parole:
– Gesù… aiuto… Gesù… aiuto…
Sentendo quelle parole il prete entrò nel sepolcro per avvicinarsi alla donna a terra, ma il becchino lo trattenne con un gesto:
– Non può essere altrimenti, si tratta di una possessione diabolica!
Poi sollevò in alto il badile e, con un ampio slancio, ne infilò la punta nella gola della donna. Quest’ultima rantolò in maniera così raccapricciante che un brivido di sgomento corse lungo la schiena dei due uomini, poi la donna prese a dimenarsi, picchiando il pavimento con le mani e grattando con le dita.
Il becchino non cedeva, alzava il badile e colpiva, colpiva, colpiva. Quasi in preda al delirio, picchiò fino a quando non riuscì a staccarle la testa dal corpo. La testa rotolò fin sotto ai piedi del prete, che saltò via intimorito. Dal collo del cadavere schizzò un fiotto di sangue.
Colò a lungo, raccogliendosi in una grande pozzanghera. Sulla sua superficie vitrea si specchiava la luce danzante della candela.
– Reverendo, può anche andare ad occuparsi dei suoi doveri. Adesso posso cavarmela anche da solo. Grazie a Dio abbiamo rimediato in tempo al male che, dall’interno di questo sepolcro, si sarebbe potuto diffondere in tutta la città. Grazie a Dio, appena in tempo…
* * *
“et accade siffatta mirabilia con l’huomini che siam soliti di chiamar strega et phantasma, ch’elli cerchino di divorar lo drappo funebre che han indosso, et poscia la morte lo sangue d’essi sgorga: et essi non cognoscono, essendo innocenti, che donna di magna damnatione li sottrae poscia lo parto, pacta tra intiere casate et familiae fabrica con lo Dimonio, acciocché siffatta mirabilia poscia la morte avvenga et acciocché questi o quelli la morte colga; egualmente a ciò che accadde il giorno dalla Incarnatione del nostro Signore 6 marzo M.DC.XC.III presso la ecclesia di Sandomiria, ove ne lo sepolcro al decorrer di molte dimeniche fu rinvenuta una foemina a divorar lo drappo funebre suo, et esso fu con magna coercitione de’ suoi denti recuperato, et poscia che lo suo capo venne mozzato con lo badile, lo sangue come da corpo vivo da lo cadavere sgorgava, io stesso l’avea visto con somma palpitatione. S’un non abbia voglia di mozzar lo capo in siffatta guisa puote altresì, poscia la morte, infilar in bocca al defunto una pietra, onde lo pactum con lo Dimonio venga spezzato.”
(PROCESSO LEGALE ATTORNO A LO PARGOLO INNOCENTE ETC. ETC., DE LO PRETE STEFANUS ŻUCHOWSKI, DOCTOREM DE AMBO LE LEGGI, ARCIDIACONO, UFFICIALE ETC. SANDOMIRIANO ETC. ETC. SANDOMIRIA A.D. M.DCC.X.III, p. 126).
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